Branding Culturale: un estratto della mia intervista al blog di Giunti Academy dove tengo il corso di Cultural Branding al Master di Economia e Gestione dei beni Culturali.
Micol, partiamo dalle basi. Cosa si intende per “branding” e come si declina questo concetto in ambito culturale?
«In estrema sintesi, il branding è un processo di costruzione di valore che parte dall’identità dell’oggetto. Personalmente lo definisco un “algoritmo creativo costruito con empatia”: un processo strategico e operativo con una componente tecnica (algoritmo) e una creativa, che si sviluppa però sempre dal DNA dell’oggetto della nostra indagine. Il branding è un’attività potenziante, uno “strumento” che amplifica l’identità e la riconoscibilità. Gli studi di psicologia cognitiva e le neuroscienze ci dicono che il nostro cervello, sebbene sia un organo complesso e ancora poco conosciuto, opera attraverso un principio molto semplice per la memorizzazione delle informazioni: trattiene infatti quelle che considera consistenti e di valore.
Cosa significa lavorare sul branding culturale?
Lavorare sul branding culturale significa potenziare la comunicazione della cultura, dotarla di uno strumento che le permetta di essere riconoscibile, familiare e risonante per il pubblico: di percorrere, cioè, i passaggi base per la creazione di un processo di audience development. Inoltre strategie di branding, specie di lungo periodo, si rivelano un investimento importante con rendite future. In un settore come quello culturale, spesso in sofferenza, significa ottimizzare e potenziare le risorse. Pensiamo, ad esempio, al periodo che abbiamo vissuto con il lockdown: da parte di molte istituzioni culturali, la mancanza di “fisicità” è stata sopperita con alcune attività di relazione digitale con il pubblico create e definite all’interno di una strategia di brand, prima ancora che di comunicazione».
Cosa significa “brandizzare” un museo o un progetto artistico?
«Molti storici della materia fanno riferimento alla parola “brandizzare” dal francese “brennan”, ovvero marchiare a ferro le mandrie: una pratica antichissima ma che dall’Ottocento è divenuta più diffusa. In realtà, l’esigenza di conoscere l’identità di un bene è sempre esistita, come testimoniano le più antiche civiltà. In epoca romana il famoso titulus pictus denotava l’origine e la provenienza delle merci: un marchio di garanzia e riconoscibilità. È proprio in questa “interpretazione” originaria che troviamo la parte nobile ma anche pratica della funzione di branding. Ovvero attribuire riconoscibilità e memorabilità, soprattutto in un contesto contemporaneo di sovraesposizione ai messaggi. Che sia un museo, un progetto o un artista, il punto di partenza è sempre dettato dai codici identitari. Brandizzare, quindi, non significa costruire artificialmente e a tavolino l’identità del soggetto. È piuttosto un processo “maieutico”, che si sviluppa nel tempo e nella relazione con il pubblico».
Quali sono i key components di una brand vision e quando questa può dirsi attuata all’interno di un’istituzione museale?
«È una bella domanda. Soprattutto perché chiama in causa il vero cuore della materia: l’aspetto strategico e metodologico. Esistono molti modelli teorici a cui possiamo far riferimento per la costruzione di una brand vision. Possiamo scegliere modelli storici, come quello di David Aaker, o più intuitivi, come il Prisma di Kapferer o il modello degli Archetipi ispirato alla psicoanalisi junghiana. Non ci sono però formule matematiche o soluzioni universali. Le istituzioni museali, poi, sono organismi complessi. Molto più delle aziende, per via della loro natura e funzione. In generale, una brand vision può dirsi attuata quando sia l’audience sia i suoi stakeholder hanno una visione e un’interpretazione dell’istituzione chiara, condivisa e identitaria. Se pensiamo al MOMA abbiamo un esempio di una brand vision ben precisa: quella di Abby Aldrich Rockefeller, che nel 1929 sottolineò l’urgenza e la necessità di un museo che fotografasse la contemporaneità. I luoghi, i direttori, i curatori di questa istituzione si sono succeduti negli anni, ma la visione, così lungimirante e rivoluzionaria, è rimasta assolutamente intatta, sebbene attualizzata, quasi 100 anni dopo».
Come si costruisce un “progetto di branding culturale”?
«Il progetto di branding, come dice l’utilizzo della forma verbale dell’infinito in inglese, indica la necessità di un processo costante nel tempo. Il punto di partenza è la strategia, come abbiamo detto precedentemente. Ma la strategia, senza una traduzione operativa, sarebbe inerme. L’operatività richiede la “messa a terra”, ovvero tradurre la visione in concretezza. Questo avviene innanzitutto attraverso l’individuazione dell’identità visiva, che, per un museo ad esempio, va declinata su tutti i supporti di comunicazione: non solo logo e font, ma anche i materiali dalla segnaletica o della didattica. L’identità, poi, passa anche attraverso il tone of voice. In un contesto dove i “touch point”, i punti di relazione con l’audience, aumentano (social network, sito internet, app), il tono di voce coerente e conforme è fondamentale per la riconoscibilità e il trasferimento dei valori della brand vision».
Chi è il brand manager quindi? Quali sono le sue skill e le sue competenze?
«Sul branding esiste da sempre molta confusione, causata principalmente dall’associazione semplicistica che branding significhi “fare un logo”. In realtà il branding è un concetto polisemico sia nell’interpretazione che nelle discipline che vi confluiscono. La materia, infatti, afferisce ad ambiti diversi come economia, sociologia, psicologia, semiotica e progettazione grafica. Lo stesso “inventore”, Neil McElroy, giovane ex studente di Harvard entrato in Procter&Gamble nel suo famoso memorandum del 1935, aveva definito il branding come un campo “collaborativo” e multidisciplinare. Il brand manager richiede quindi competenze trasversali, complesse e approfondite.
E con quali figure professionali si confronta nelle sue attività di branding culturale?
Marketing, digitale, scienze umane sono solo alcune delle hard skill che deve portare in dote questa figura professionale; empatia, pensiero critico e capacità di lavorare in team sono invece le soft skill principali. In un museo, il brand manager si deve confrontare con tutti i reparti tra cui quello curatoriale, di comunicazione e della didattica. Il brand manager ha però una sua indipendenza e autonomia, perché in realtà è al servizio dell’idea e dell’identità dell’istituzione».