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Branding museale: il museo Egizio di Torino

I contributi di brandingmuseale sono tra le lezioni a cui tengo di più. Sono il frutto di ore di lavoro e ricerca, spesso non solo su i libri ma attraverso contributi video, interviste e siti internet. Anche perchè il tema in Italia è spesso sottovalutato, basti pensare che all’interno dei musei non esiste quasi mai la figura del brandmanager.

Questa volta ho scelto per il workshop introduttivo la bellissima operazione di “rifunzionalizzazione” del Museo Egizio di Torino e del suo rebranding seguito dallo studio Migliore + Servetto, che partendo dal geroglifico dell’acqua, simbolo che accomuna Nilo e Po per il tramite del Mediterraneo, hanno sintetizzato l’essenza di una nuova visione data dall’innovativo direttore Christian Greco.

In uno dei suoi più famosi interventi in un TedTalk il direttore Greco sottolinea l’importanza di unire i puntini del passato per guardare il futuro: l’essenza del mio lavoro.

“Lo studio del passato, la passione che ci spinge a scavare a guardare i documenti è un passione che è dettata in realtà a scoprire il nostro futuro. 

C’è una bellissima immagine biblica in cui il tempo è rappresentato, e il futuro è alle spalle, mentre il passato è davanti. 

Ecco di questa storia, di guardare il passato per riscoprire il futuro è quello di cui vi voglio parlare oggi. 

Una storia che a Torino è iniziata 200 anni fa e che sta portando oggi ad avere una delle più grandi operazioni culturali in Italia. 

[…] L’antichità, quindi, che deve segnare l’importanza del paese e l’idea di progredire in un grande progetto culturale”.

Sul sito dello Studio Migliore + Servetto è possibile analizzare il progetto di identità visiva che partendo dall’immagine del geroglifico dell’acqua ha coinvolto tutti gli aspetti del museo (logo, comunicazione, segnaletica e merchandising).

Un progetto evocativo di branding museale pur nella sua semplicità che riesce a trasmettere tutta la forza dell’antichità in una visione contemporanea.

Per vedere anche altri esempi di branding museale un ottimo database è fornito dal sito “UnderConsideration” con il progetto BrandNew.

@Migliore + Servetto.
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Formazione

Master TCF Academy

Il mio nuovo corso di comunicazione digitale con Carlotta Sorrenti nel Master in Management dello Sport Femminile per TCF Academy in collaborazione con l’App Tutto Calcio Femminile e EuropEducation.

A me le cose facili non sono mai piaciute. E chi mi conosce sa quanto sia vera questa cosa. Al limite di complicarsi sempre le cose.

E le sfide non sono mai state su un palco (anche perché sai che ballerina 🩰), su un terreno di gioco, in una classe, nell’ambiente di lavoro. Le mie sfide sono sempre state dentro di me e solo con me. Non ho mai considerato gli altri come avversari. Non so cosa sia la competizione. Un po’ come dice De Gregori…

”un calciatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”.

La leva calcistica della Classe ’68 ( Francesco De Gregori)

Insomma non potrei mai fare l’attaccante. Ma per fortuna per insegnare e formare non serve quel mindset. Grazie a all’App Tutto Calcio Femminile e alla Tcf Academy per questa esperienza.

Entro in Accademia con una speranza legata ad una innovazione: che il calcio femminile sia un mindset ⚽️ prima ancora che uno sport. ♥️

Il corso che ho preparato si chiama Comunicazione Digitale per lo Sport e fa parte del Master in Management dello Sport Femminile. Il modulo è stato progettato con Carlotta Sorrenti brand strategist, fondatrice dell’App TCF e esperta in marketing digitale. All’interno del Master sono presenti professionisti del mondo dello sport come Antonio Cincotta, Erika Morri già ex Azzurra di Rugby e formatrice e Roberto Ghiretti con il patrocionio della FISPE.

Il programma formativo della TCF Academy è in collaborazione con Europ Education di David Rossi e con il coordinamento di Fabio Puglisi.

Se il mondo del calcio femminile ti interessa puoi seguire le notizie aggiornate tramite l’app Tutto Calcio Femminile o il sito.

Per maggiori informazioni su i corsi della TCF Academy, clicca qui.

Un motto che ho fatto mio?

“Sbagli il 100% dei colpi che non tiri” di Wayne Gretzky.

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Formazione

La Playlist delle Softskill del 2022

Non so come sia andato il vostro 2021. A fine anno si fanno sempre i bilanci. A me più che i numeri, piace condividere quello che ho imparato. Anche perchè ho lavorato a lungo sul tema e ho deciso di tornare sui banchi di scuola ;-)..ma ne riparleremo.

Come dicevo, ho scelto 5 parole rappresentative del percorso fatto nella rubrica #ContinuousInnovation e tre #softskill del futuro che derivano da quell’ambito.

Spesso nei curricula, questo tipo di competenze, sono come lo zucchero a velo sul pandoro: una spolverata a caso, che il giorno dopo, se non è igroscopico, si scioglie con l’umidità o fuor di metafora, con la pressione lavorativa. Eppure sono il vero valore differenziante, non tanto nel cv, ma nell’arena professionale. Si perchè, ammettiamolo, è un’arena.

Ad ogni parola, ho associato una canzone, per costruire una playlist per il 2022. 🎧
  

…il resto nell’articolo a seguire per la Playlist delle Softskill del 2022. 👇🏻

Ho scelto 5 parole rappresentative del percorso fatto nella rubrica Continuous Innovation di Rinascita digitale e tre soft skill del futuro che derivano da quell’ambito.

Spesso nei curricula, questo tipo di competenze sono come lo zucchero a velo sul pandoro: una spolverata a caso, che il giorno dopo, se non è igroscopico, si scioglie con l’umidità o fuor di metafora, della pressione lavorativa. Eppure sono il vero valore differenziante, non tanto nel cv, ma nell’arena professionale. Si perchè è un’arena. Diciamolo.

 Ad ogni parola ho associato una canzone, per costruire una playlist del 2022

  1. Identità – Come as you are (Nirvana)   

Soft Skill: Self Awareness, Sense Making, Job Crafting.

 Una canzone che parla dell’alienazione, della paura e soprattutto del karma di cui puoi essere vittima se non sei vero. Una sorta di monito a quello che ti può succede nella mistificazione della tua identità. Tutto corretto, ma l’identità passa dalla presa di coscienza di chi siamo, dalla consapevolezza dei limiti e dalla capacità di miglioraci….ovvero dalla nostra self awareness. Altrimenti se sei vero, mai sei un incapace. Sei un vero incapace. Sostituite qui l’aggettivo a vostro piacimento. (Amen)   

2.  Strategia – One vision (Queen)

Soft Skill:  Collaborative Approach, Strategy Decision Making, Smart Planning.

La strategia non è mai del singolo. Anche quando sei Freddie Mercury, il tuo gruppo sono i Queen e ti sei ispirato al discorso di Martin Luther King “I have a Dream”. L’approccio collaborativo è la chiave per ideare le strategie migliori. Nel brano in questione Brian May ideò il riff di chitarra della canzone, Freddie Mercury la melodia vocale e il resto della band contribuì nel testo e nell’arrangiamento. Poco importa che rimanga uno dei brani meno capiti del gruppo, la sua dimensione partecipata cimentò la band e la sua identità. (Chapeau)

3. Innovazione – You can’t always get what you want (Rolling Stone)

Soft Skill:  Explorer Mindset, Change Agility, Growth Mindset.

La leggenda narra che la canzone sia nata da una battuta fulminante di un barman alla richiesta insolita e inesaudibile di “cherry soda” da parte di Mick Jagger. In realtà la canzone affronta tre temi chiave nel party infinito che sono stati gli anni Sessanta: l’amore attraverso la libertà sessuale, la politica e la droga. La riflessione finale è lapalissiana: non possiamo avere sempre quello che vogliamo. Meglio cercare di avere quello di cui abbiamo bisogno. L’innovazione è anche questo. Non chiederci cosa vogliamo, ma quello di cui abbiamo veramente bisogno. Un cambio di mindset per avere modelli produttivi rigenerativi, IoT per progettare città sostenibili e intelligenza artificiale al servizio dell’uomo, combattendone i suoi bias. (Break a leg, Sir).

 4. Emozioni – Cold, cold man (Saint Motel)

Soft Skill: Emotion Management, Cognitive Diversity, Inspiring Leadership.

Abbiamo pensato che le emozioni fossero scevre dal nostro processo cognitivo. Poi è arrivato Anthony Damasio e ci ha spiegato che il cartesiano Cogito Ergo sum era una fake news.  Questo cambia tutto e mette in discussione i modelli di leadership tradizionale come quella autoritaria e patriarcale, che si stanno sgretolando.  Ma anche la situazionale non se la cava sempre bene. Chi non sta al passo? Perderà i vantaggi competitivi, perché la partita si gioca soprattutto sul capitale umano. Non più sulle risorse umane. Che poi non si chiamano più così ma People. (Rebranding).

 5. Spazio – From Gagarin’s point of view (Esbjörn Svensson Trio)

Soft Skill: Striving for excellent, Forethought, Efficiency.

Qualche anno fa lo spazio era dimenticato. Una dimensione siderale e silenziosa abbandonata apparentemente dagli stessi studiosi. Eppure Ron Haward nel film Apollo 13 ci aveva raccontato che la partita dello spazio è molto più terrena di quello che noi pensiamo. E si scontrava con cinque filtri per la CO2 che da quadrati dovevano diventare tondi. Insomma la soft skill della creatività. In realtà per andare nello spazio, così come per andare nel futuro, ci servono anche altre competenze come “striving for excellent” ovvero usare il nostro talento e le nostre abilità per fare sempre qualcosa in più.  Che non significa essere perfetti (striving for perfection) ma allenarci ad andare oltre i nostri limiti. E se non lo facciamo? Huston, we have a problem.

Qui per ascoltare la Playlist delle Softskill del 2022:

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Formazione

Arte e Moda

Arte, moda, economia. Un’area di ricerca in un territorio dal potenziale infinito, dove il Made in Italy può giocare un ruolo centrale.

“La moda non è arte, ma ha bisogno di un artista per esistere.”

Yves Saint Laurent 

arte-e-moda
@Fondation Pierre Bergé – Yves Saint Laurent

Da quando possiamo parlare della relazione tra Arte e Moda? Possiamo individuare una data in cui questo rapporto è nato, si è costituito, consolidato e ha creato una rapporto valoriale su cui costruire un percorso di senso?

Probabilmente da sempre. Perchè da sempre l’uomo, l’Homo Sapiens ha avuto a che fare con la creatività come espressione della sua identità. E sappiamo che l’identità passa attraverso delle manifestazioni concrete e funzionali come può essere la necessità di vestirsi e quelle di esprimere il sè indipendentemente dalla funzionalità dell’espressione.

Se volessimo dare una data di nascita a questa relazione dovremmo individuare il momento in cui la moda esce dalla dimensione sartoriale e puramente individuale a servizio dei pochi, la ristretta cerchia del potere come reali, aristocrazia o potere religioso, per entrare in una dimensione più allargata frutto del cambiamento sociale che si stava registrando all’interno della società. La Rivoluzione Francese, in questa prospettiva, cambia anche il paradigma tra arte e moda. O meglio più che cambiarlo lo struttura, ponendo le basi sociologiche per creare una relazione. Lì dove prima era una relazione basata sui ruoli, la Rivoluzione Francese con il suo accento sull’identità, trasforma completamente la relazione. Non più solamente il ruolo, ma l’identità. L’individuo.

Lo sviluppo della moda è stato reso possibile dalla crescita in Occidente della cultura moderna e dei suoi principi democratici (Codeluppi 2008). Sarà la Rivoluzione Francese infatti a stravolgere l’archetipo dell’abito e apre visioni contemporanee e punk (Periodo Giacobino) sebbene per l’uomo ci sarà un periodo molto “grigio e monotono” che il Manifesto Futurista neutrale sovvertirà. 

Ma se volessimo individuare una data? Un anniversario di questo matrimonio, complesso e articolato come tutti i veri matrimoni?

“Io sono un’artista.”

Charles Frederick Worth

Il rapporto moda e arte si consolida man mano che la figura del designer si definisce. Storicamente il primo designer della storia è Charles Frederick Worth può essere considerato il primo artigiano che trasformò la figura del sarto in quella dello stilista. 

Sebbene ci sia sta una antecedente illustre come la modista di Maria Antonietta d’Austria ovvero Rose Bertin.

Nato in Inghilterra nel 1825, Charles Frederick Worth fondò la sua Maison di moda con un socio nel 1860 a Parigi. Nella stessa via dove, qualche anno dopo, aprì Cartier. 

Dopo un apprendistato a Londra nel settore dei tessuti si trasferì nella Ville Lumière dove fu assunto come assistente alle vendite nei magazzini “Gagelin”: fu proprio lì che incontrò la futura moglie e musa, Marie Augustine Vernet.

Pioniere del marketing e delle pubbliche relazioni, Worth impose alla sua clientela la stagionalità legata all’abbigliamento con collezioni scandite da eventi mondani. Ma, più di tutto, sapeva plasmare i tessuti, dal tulle alla seta, dando vita ad abiti regali come le donne che vestiva. L’artigiano sarto stava  per  essere  sostituito,  ai  livelli  più  alti  della  professione,  da  un  creatore  di  moda  che inventava  proposte  uniche  e  originali.  L’anonimo  artigiano  si trasformava in  protagonista nella vita dei suo clienti eccellenti assumendo un vero e proprio status  symbol.

Il  couturier,  come  un  vero  artista,  firmava  le  sue  creazioni  attraverso  un’etichetta  e  come  un  vero  artista  il  prezzo che avrebbe richiesto non dipendeva dai materiali. Probabilmente né Bertin né Worth pensavano che un loro abito fosse la stessa cosa che un quadro di Vernet o Delacroix, ma dichiararlo in modo così provocatorio aveva una funzione specifica: farsi pubblicità.

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10 Ted Talk per la crescita professionale e personale

Una selezione dei 10 migliori Ted Talk sulla crescita personale e professionale

I Ted Talk sono un ottimo strumento per approfondire certi temi, per imparare o tenere in allenamento il nostro inglese e fonte di ispirazione. Durano 15 minuti per cui un periodo di tempo contenuto, hanno sottotitoli in lingue diverse e ci permettono di esplorare temi conosciuti o meno con una prospettiva sempre molto interessante.

Possono essere fruiti on line a questo sito oppure attraverso l’app sul nostro cellulare.

Ecco la selezione di questi 10 Ted Talk:
  1. My year to say yes di Shonda Rhymes

2. Your elusive creative genius di Elizabeth Gilberth

3. What makes a good life? Lesson from the longest study about happiness di Robert Waldinger

4. The puzzle of motivation? di Dan Pink

5. Why we love cheat? di Helen Fisher

6. Do School kills Education? di Sir Ken Robinson

7. Own Your Behaviours, Master Your Communication, Determine Your Success di Louise Evans

8. The surprising science of happiness di Dan Gilbert

9. 5 ways to lead in an era of constant change di Jim Hemerling

10. 5 steps to designing the life you want di Bill Burnett

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Formazione

L’innovazione è anche fare un passo indietro

L’intervento sull’innovazione fatto in occasione del primo compleanno di Rinascita Digitale.

Quando abbiamo iniziato a progettare la rubrica sull’innovazione, all’interno del palinsesto GoodMorningDoers, con Stefano Saladino ho pensato che la prima domanda da porsi fosse “Che cos’è l’innovazione”.

Si fa così no? Per capire un concetto parti dalla sua definizione. Quindi la domanda più logica sarebbe stata quella.

Allora mi è venuta in mente una risposta. Peccato che fosse ad un’altra domanda.

“Cos’è il Jazz?

“Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai.”

Louis Armstrong 

Questa frase è pronunciata da Louis Armstrong (1901 –1971), “Satchmo”, uno dei maggiori trombettisti e figure di rilievo nel panorama della musica jazz, che fu capace di portare quel genere musicale dai locali malfamati di periferia fino al grande cinema di Hollywood. Uno che conosceva sia il jazz che l’animo umano.

Perché è veramente difficile definire qualcosa di così complesso e umano, come è il jazz. E forse la stessa cosa potremmo dire dell’innovazione.  

L’innovazione è una cosa antica.

Intorno a 75.000 anni fa, a partire dall’Africa alcune popolazioni umane iniziarono a manifestare comportamenti e capacità mai viste fino a quel momento, svincolate dalla mera sopravvivenza tra cui oggetti incisi come figure astratte, ornamenti per il corpo, sepolture rituali: innovazioni e variazioni tecnologiche: quello che Telmo Pievani definisce “l’alba dell’immaginazione, nel suo libro Imperfezione, una storia naturale.

Sebbene quindi l’innovazione sia un fenomeno antico per l’uomo, abbiamo iniziato a studiarla sistematicamente solamente 100 anni fa, grazie ai contributi di una economista viennese: Arthur Schumpeter.

Schumpeter è stato primo economista a studiare in modo ampio, sistematico ed approfondito il ruolo dell’innovazione nelle moderne economie industriali. Il suo pensiero evolve, cambiando notevolmente, nel corso di circa 30 anni dalla Teoria dello sviluppo economico (1912) a Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) ma da lì in poi darà la strada ad importanti studi dell’innovazione, partendo dal suo contributo fondamentale “l’innovazione è un elemento competitivo per le aziende e le organizzazioni”.

Molti contributi si sono succeduti nel tempo, ma anche quelli più contemporanei a volte denotano un atteggiamento che potremmo definire scolastico.

Prodotti, servizi, applicazioni, metodi. Questa è l’innovazione classica. Tradizionale scolastica, appunto. Non nel senso della formazione ma come metafora della filosofia scolastica dominante nel Medioevo, che come dice Wikipedia, consisteva nell’illustrare e difendere le verità di fede con l’uso della ragione, verso la quale si nutriva un atteggiamento positivo. In sintesi, privilegio la sistematizzazione del sapere già esistente rispetto all’elaborazione di nuove conoscenze.

In realtà in questo percorso di contributi e studi sull’innovazione, il richiamo al jazz non è casuale.  Nel 1999 Karl Weick, scrisse un contributo che ha fatto scuola «Improvisation as a Mindset for Organizational Analysis[1]» in italiano “Jazz e improvvisazione organizzativa”, dove sosteneva che è possibile fare un parallelismo tra il jazz e l’innovazione, perché in entrambe i campi si può improvvisare.  C’è un passaggio importante in quel contributo. Il manager come un musicista jazz.

Scarica qui il PDF di Debora Ancona su Karl WeickImprovisation as a Mindset for Organizational Analysis

Nell’improvvisazione jazz le persone agiscono per pensare, il che le conferisce la caratteristica della creazione di senso (sense-making) a posteriori. A differenza di un architetto che lavora con i progetti e guarda al futuro, un musicista jazz non può guardare al futuro di ciò che sta per suonare, ma può volgersi indietro verso ciò che ha suonato; così ogni nuova frase musicale può essere formata sulla base di quella appena eseguita. Egli crea la sua forma retrospettivamente.[2]

E’ il passato che fa il presente, e di conseguenza il futuro. Che si ricollega al titolo che ho voluto dare a questo contributo: “L’innovazione è anche fare un passo indietro”.

L’innovazione non è un percorso lineare. Anzi, a volte innovare significa decidere di fermarsi e di fare un passo indietro. In questo percorso, siamo partiti con un passo indietro, il dubbio che l’innovazione potesse essere qualcosa di diverso. E che proprio in quel diverso, trovasse la sua vera funzione. Il suo vero significato. Volevamo leggere l’innovazione in modo più ampio. possiamo portare.

Sappiamo da sempre che l’innovazione è regala e toglie qualcosa. Pensiamo alla realtà di questi giorni. La tecnologia ci permette di essere qui, ora. Ma spesso quella stessa tecnologia ci sta togliendo delle cose. Ci espone a dei rischi. E qui dovremmo aprire una parentesi sulla consapevolezza.

Una definizione dell’innovazione

Allora siamo partiti tornati alla sua definizione. Perché, a parte la battuta di Louis Armstrong, le definizioni sono importanti.

L’origine tardo latina della parola, come ci ricorda il dizionario Nuovo De Mauro[3] deriva dal latino tardo innovatio –onis e ha due significati:


1. trasformare introducendo sistemi o metodi nuovi: innovare l’ordinamento scolastico; anche ass.: ansia, desiderio di innovare.
2. ridestare, ricreare un sentimento, una disposizione d’animo: estasi e pianto | e profumo, ira ed arte, a’ miei dì soli | memore innovo (Carducci)

Ricreare un sentimento. Cambiare una visione. Ridare un significato. E’ proprio qui, che abbiamo trovato il punto di partenza di quello che cercavamo. Avevamo bisogno, però, di un confronto. Venendo entrambi dal marketing, siamo sempre stati soggetti esposti in qualche modo all’innovazione. E la nostra stessa materia negli ultimi anni, insieme ad altre che sono terreno di lavoro nelle organizzazioni economiche e nelle imprese, come comunicazioni, branding e organizzazione aziendale – solo per citare qualche esempio – è stata travolta dall’innovazione e dal cambiamento.

L’innovazione è la ricerca di nuovi significati.

Ma avevamo bisogno di una cornice metodologica che sostanziasse la nostra necessità e la nostra intuizione. L’abbiamo trovato nei contributi del Prof. Roberto Verganti.

Da oltre vent’anni il Professor Verganti (Politecnico di Milano e School of Innovation di Stoccolma) segue, studia, analizza i processi dell’innovazione. Ha scritto numerosi libri, tiene conferenze internazionali sul tema, tra cui un bellissimo Ted Talk[4], insegna in contesti universitari materie come innovazione e leadership. Sintetizzare i suoi contributi non è immediato e non rende giustizia agli anni di ricerca teorica e sul campo. In estrema sintesi, Verganti parla dell’esistenza di due modelli di innovazione. Da una parte il modello classico e tradizionale, che ha finora dominato il mercato e la mentalità con cui viene sviluppata e gestita l’innovazione ovvero l’innovazione delle soluzioni.

Questo tipo di innovazione è quella che in assonanza all’Internet of things impropriamente “Innovation of things”: che siano beni materiali o immateriali poco importa, tale tipo di innovazione riguarda “nuove e migliori idee per risolvere un problema noto. Si tratta di individuare un nuovo come, un modo originale di introdurre dei cambiamenti che siano considerati rilevanti per un certo mercato.[5]” 

Dall’altra parte invece troviamo l’innovazione di significato, che riguarda la visione originale che ridefinisce il valore assegnato al problema. Porta l’innovazione a un livello più alto, non solo ad un nuovo come, ma a un nuovo perché: suggerisce nuove ragioni per cui la gente dovrebbe usare qualcosa, una nuova proposta di valore, un’interpretazione originale di ciò che è rilevante e significativo per il mercato, In sintesi una nuova direzione[6].

Questi due approcci non sono esclusivi e neppure sono sequenziali temporalmente, nel senso che nel panorama dell’innovazione convivono ed evolvono entrambi.

Il mindset dell’innovatore

Però è indubbio che l’innovazione di significato rifletta la complessità della contemporaneità, le sue spinte riflessive ed individuali, perché la ricerca di significati comporta un percorso in un certo senso semiotico, ovvero interpretativo. Un percorso che parte sempre e comunque da un singolo, il soggetto motore e portatore del nuovo significato[7],

Messo in sicurezza l’approccio metodologico, è stato proprio sul soggetto che abbiamo avviato la seconda riflessione del nostro percorso. Perché se è il singolo che guida l’innovazione, oggetto della nostra analisi non era la soluzione, quanto piuttosto la mentalità con cui il soggetto si approccia all’innovazione, in altre parole il mindset dell’innovatore.

Allora se l’intento è stato di andare a leggere il mindset dell’innovatore, abbiamo pensato di rifarci all’evoluzione dell’uomo.

Dove c’è l’imperfezione è la promessa di nuove storie”.

Ecco qui un altro problema. Mi sono ricordata che sempre nel testo di Telmo Pievani veniva citata Rita Levi Montalcini e la sua definizione di cervello. “Il cervello è un accrocco: il risultato di mettere insieme parti diverse, alla bella e buona, parti antiche con parti buone, che fanno cose anche in contraddizione che poi interagiscono e che fanno di necessità e virtù.  Una struttura estremamente imperfetta, ma dentro quell’imperfezione c’è il segreto della sua potenza e creatività. Se cercate un cervello perfetto andate dalle formiche (che si sono sviluppati più di 600 milioni di anni). Ma dalle formiche non è mai uscito un Shakespeare o un Leonardo da Vinci.”

E in effetti l’innovazione è un percorso imperfetto. E come diceva sempre Pievani, citando Charles Darwin questa volta “Dove c’è l’imperfezione è la promessa di nuove storie”.

Anche in questa interpretazione del nostro cervello, siamo però soliti pensare che il frutto dell’ingegno umano sia più libero e incondizionata rispetto agli organismi ancorati al loro DNA. E’ vero apparentemente. L’evoluzione tecnologica è rapidissima e spesso travolgente. Gli economisti e tecnologici Kevin Kelly e William Brian Arthur dicono che molti prodotti tecnologici si sono affermati indipendentemente dalla loro efficienza e sono il frutto di riutilizzi di componenti e strutture esistenti.

Anche la tecnologia, come l’evoluzione biologica, non è frutto di un disegno ottimale, ma di un processo che prevede arrangiamenti, imperfezioni e cooptazioni funzionali.  Un atteggiamento che citando una definizione dell’antropologo francese Claude LéviStrauss potremmo dire del bricoleur, ovvero assemblare con i mezzi scarsi e pezzi di risulta.

L’innovazione è imperfetta, il cervello è imperfetto. Insomma sempre peggio.

L’innovazione e le emozioni

E poi c’era un altro aspetto. Sia l’innovatore che colui che fruisce dell’innovazione sono soggetti alle emozioni.  Qui ci hanno aiutato i contributi di Antonio Damasio[8]. Grazie ai suoi studi sull’emozioni e gli aspetti cognitivi del nostro pensiero, abbiamo la consapevolezza che le emozioni sono parte integrante del nostro ragionamento e che provare a scinderle dalla ragione è anacronistico ed inutile. “Una consapevolezza” che ci ha spinto a porre a ogni nostro ospite la domanda sul suo punto di vista delle emozioni.

Infine In questo viaggio all’indietro, dove ci siamo fermati?

Ci siamo fermati a Giacomo Leopardi, che nel 1836 purtroppo quasi al termine dei suoi giorni, nella “Ginestra” punta il suo sarcasmo nelle Magnifiche sorti progressive cantate dal cugino Terenzio Mamiani.  Nella complessità dell’esistenza, sul baratro di un antropocentrismo che mette a rischio, nella sfida agli equilibri di natura, il nostro ecosistema, la forza e la saggezza della ginestra ,capace sempre di riconosce il proprio limite, sta nella volontà di non essere mai sola ma stretta in una social catena un po’ come questa esperienza di Rinascita Digitale.

L’innovazione è anche fare un passo indietro.


[1] Su questo tema, si veda anche il testo di Frank Barrett, “Disordine armonico: Leadership e jazz.

[2] Tratto da “Viaggio nelle teorie dell’innovazione“ di Giordano Ferrari.

[3] https://dizionario.internazionale.it/parola/innovare

[4] https://www.youtube.com/watch?v=WDn3yQKfpqY

[5] Roberto Verganti, Overcrowded Il manifesto di un nuovo modo di guardare all’innovazione” Hoepli, Milano 2018. 

[6] Roberto Verganti, Overcrowded Il manifesto di un nuovo modo di guardare all’innovazione” Hoepli, Milano 2018. 

[7] L’innovazione di significato è “inside-out” ovvero parte dall’interpretazione di un singolo, più che da un bisogno di molti come nel caso dell’innovazione di soluzioni, non a caso detta outside-in.

[8] L’errore di Cartesio di Antonio Damasio.

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Formazione

Personal Branding: 3 Ted Talk da vedere

Investire un po’ di tempo, per vedere un video sul personal branding, è un ottimo modo per conoscere di più la materia e nel caso di video in inglese, per mantenere l’esercizio. Quali sono i primi video per iniziare un percorso nel professional branding?

Crea valore per il tuo audience. Crea valore per il tuo network.

1. Designing a purposeful personal brand from zero to infinity | Tai Tran | TEDxBerkeley

Tai Tran ci racconta come costruire un proprio percorso di identità da zero, attraverso la creazione di valore. Il suo è iniziato con una “New Year’s resolution” ovvero con i “buoni propositi di inizio anno” di scrivere un post su Linkedin al giorno.

La frase da ricordare

“Create value for your audience. Create value for your network. Many people see personal branding as numbers’ game. Thinking more people you know, the better will be. I think is more about deepth than width”.

Tai Tran

Tain Tran - Ted Talk
Named the youngest Forbes 30 Under 30 and LinkedIn Top Voice in Marketing and Advertising, Tai is an experienced storyteller, marketing leader, and entrepreneur. Followed by over 100,000 executives and young professionals, Tai’s work has been widely recognized by Forbes, LinkedIn, Twitter, MarketWatch, and Tech Insider. He previously led digital and content marketing at top Fortune 500 companies, including Apple and Samsung. Tai is currently the Head of Content and Brand at SelfScore. He is an alum of the UC Berkeley Haas School of Business. Tai is the author of the upcoming book, Zero to Infinity.

Non è cosa tu racconti. Ma quello che gli altri pensano di te.

2. Powerful Personal Branding | Ann Bastianelli | TEDxWabashCollege

Ann Bastianelli ci ricorda di non cadere nella trappola che il personal branding sia quello che tu racconti agli altri. Il personal branding è esattamente il contrario, ovvero come gli altri vedono te attraverso quello che tu fai.

Ci sono 3 grandi benefit nel costruire un forte personal branding: you lead more, you win more, you gain more.

La frase da ricordare

“You can’t fake your Potato Head”.

Ann Bastianelli

Ann Bastianelli - Ted Talk
Ann Bastianelli joined the marketing faculty at Indiana University Kelley School of Business following a career that included senior executive roles at Leo Burnett, DowBrands, IKON Office Solutions and Hillenbrand. Among the many facets of her business legacy are award-winning advertising campaigns for McDonald’s Happy Meals, Eggo Waffles, and The Scrubbing Bubbles from Dow Bathroom Cleaner. An author/editor of four books, Ann is CEO of Anthology Consulting, specializing in marketing strategy and executive coaching. A member of Leading Authorities Speaker’s Bureau, Ann has delivered keynote speeches for some of the world’s most admired companies.​

Non aver paura di fare domande.

3. Don’t strive to be famous, strive to be talented | Maisie Williams | TEDxManchester

Maisie Williams è un’attrice e attivista. Ci ricorda di fare domande e ridere in faccia alle persone che ci rispondono che sono domande stupide. Di essere aperti alla conoscenza e alla comprensione di cosa ci circonda. L’obiettivo è la tutela e la costruzione del talento individuale, non il successo.

La frase da ricordare

“”Talent will carry you further than your 15 minutes of fame”.

Maisie Williams

Maisie Williams Ted Talk
Margaret Constance Williams, known as Maisie Williams, is an English actress. She made her professional acting debut in 2011 as Arya Stark of Winterfell in the HBO world phenomenon Game of Thrones. Selected among 300 British actresses, she plays the role of a tomboyish young girl from a noble family for which she won numerous awards. Her broad artistic life led her to co-found Daisie, a social media aimed at creative people in the world of arts, fashion, tv, film, photography, music, and literature. The aim of the app is to bring individuals from across industries together, to help foster collaborations with other artists and provide an alternative route into creative industries. Maisie said “Our main goal is to have a community of artists that are collaborating, uploading their work and sharing their projects.. helping others create their careers.”
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Branding Culturale: come potenziare la comunicazione della cultura

Branding Culturale: un estratto della mia intervista al blog di Giunti Academy dove tengo il corso di Cultural Branding al Master di Economia e Gestione dei beni Culturali.

Micol, partiamo dalle basi. Cosa si intende per “branding” e come si declina questo concetto in ambito culturale?

«In estrema sintesi, il branding è un processo di costruzione di valore che parte dall’identità dell’oggetto. Personalmente lo definisco un “algoritmo creativo costruito con empatia”: un processo strategico e operativo con una componente tecnica (algoritmo) e una creativa, che si sviluppa però sempre dal DNA dell’oggetto della nostra indagine. Il branding è un’attività potenziante, uno “strumento” che amplifica l’identità e la riconoscibilità. Gli studi di psicologia cognitiva e le neuroscienze ci dicono che il nostro cervello, sebbene sia un organo complesso e ancora poco conosciuto, opera attraverso un principio molto semplice per la memorizzazione delle informazioni: trattiene infatti quelle che considera consistenti e di valore.

Cosa significa lavorare sul branding culturale?

Lavorare sul branding culturale significa potenziare la comunicazione della cultura, dotarla di uno strumento che le permetta di essere riconoscibile, familiare e risonante per il pubblico: di percorrere, cioè, i passaggi base per la creazione di un processo di audience development. Inoltre strategie di branding, specie di lungo periodo, si rivelano un investimento importante con rendite future. In un settore come quello culturale, spesso in sofferenza, significa ottimizzare e potenziare le risorse. Pensiamo, ad esempio, al periodo che abbiamo vissuto con il lockdown: da parte di molte istituzioni culturali, la mancanza di “fisicità” è stata sopperita con alcune attività di relazione digitale con il pubblico create e definite all’interno di una strategia di brand, prima ancora che di comunicazione».

Cosa significa “brandizzare” un museo o un progetto artistico?

«Molti storici della materia fanno riferimento alla parola “brandizzare” dal francese “brennan”, ovvero marchiare a ferro le mandrie: una pratica antichissima ma che dall’Ottocento è divenuta più diffusa. In realtà, l’esigenza di conoscere l’identità di un bene è sempre esistita, come testimoniano le più antiche civiltà. In epoca romana il famoso titulus pictus denotava l’origine e la provenienza delle merci: un marchio di garanzia e riconoscibilità. È proprio in questa “interpretazione” originaria che troviamo la parte nobile ma anche pratica della funzione di branding. Ovvero attribuire riconoscibilità memorabilità, soprattutto in un contesto contemporaneo di sovraesposizione ai messaggi.  Che sia un museo, un progetto o un artista, il punto di partenza è sempre dettato dai codici identitari. Brandizzare, quindi, non significa costruire artificialmente e a tavolino l’identità del soggetto. È piuttosto un processo “maieutico”, che si sviluppa nel tempo e nella relazione con il pubblico». 

Quali sono i key components di una brand vision e quando questa può dirsi attuata all’interno di un’istituzione museale?

«È una bella domanda. Soprattutto perché chiama in causa il vero cuore della materia: l’aspetto strategico e metodologico. Esistono molti modelli teorici a cui possiamo far riferimento per la costruzione di una brand vision. Possiamo scegliere modelli storici, come quello di David Aaker, o più intuitivi, come il Prisma di Kapferer o il modello degli Archetipi ispirato alla psicoanalisi junghiana. Non ci sono però formule matematiche o soluzioni universali. Le istituzioni museali, poi, sono organismi complessi. Molto più delle aziende, per via della loro natura e funzione. In generale, una brand vision può dirsi attuata quando sia l’audience sia i suoi stakeholder hanno una visione e un’interpretazione dell’istituzione chiara, condivisa e identitaria. Se pensiamo al MOMA abbiamo un esempio di una brand vision ben precisa: quella di Abby Aldrich Rockefeller, che nel 1929 sottolineò l’urgenza e la necessità di un museo che fotografasse la contemporaneità. I luoghi, i direttori, i curatori di questa istituzione si sono succeduti negli anni, ma la visione, così lungimirante e rivoluzionaria, è rimasta assolutamente intatta, sebbene attualizzata, quasi 100 anni dopo».  

Come si costruisce un “progetto di branding culturale”?

«Il progetto di branding, come dice l’utilizzo della forma verbale dell’infinito in inglese, indica la necessità di un processo costante nel tempo. Il punto di partenza è la strategia, come abbiamo detto precedentemente. Ma la strategia, senza una traduzione operativa, sarebbe inerme. L’operatività richiede la “messa a terra”, ovvero tradurre la visione in concretezza. Questo avviene innanzitutto attraverso l’individuazione dell’identità visiva, che, per un museo ad esempio, va declinata su tutti i supporti di comunicazione: non solo logo e font, ma anche i materiali dalla segnaletica o della didattica. L’identità, poi, passa anche attraverso il tone of voice. In un contesto dove i “touch point”, i punti di relazione con l’audience, aumentano (social network, sito internet, app), il tono di voce coerente e conforme è fondamentale per la riconoscibilità e il trasferimento dei valori della brand vision».  

Chi è il brand manager quindi? Quali sono le sue skill e le sue competenze?

«Sul branding esiste da sempre molta confusione, causata principalmente dall’associazione semplicistica che branding significhi “fare un logo”. In realtà il branding è un concetto polisemico sia nell’interpretazione che nelle discipline che vi confluiscono. La materia, infatti, afferisce ad ambiti diversi come economia, sociologia, psicologia, semiotica e progettazione grafica. Lo stesso “inventore”, Neil McElroy, giovane ex studente di Harvard entrato in Procter&Gamble nel suo famoso memorandum del 1935, aveva definito il branding come un campo “collaborativo” e multidisciplinare. Il brand manager richiede quindi competenze trasversali, complesse e approfondite.

E con quali figure professionali si confronta nelle sue attività di branding culturale?

Marketing, digitale, scienze umane sono solo alcune delle hard skill che deve portare in dote questa figura professionale; empatiapensiero critico e capacità di lavorare in team sono invece le soft skill principali. In un museo, il brand manager si deve confrontare con tutti i reparti tra cui quello curatoriale, di comunicazione e della didattica. Il brand manager ha però una sua indipendenza e autonomia, perché in realtà è al servizio dell’idea e dell’identità dell’istituzione».